Giorgio de Chirico Autoritratto con la propria ombra, c. 1920
Sabbatical by Cedar Walton
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Qualcuno dagli occhi abbagliati dall’insolita luce che dallo specchio si riverbera nella stanza, qualcuno che credevo svanito senza rimpianti mi appare innanzi silenziosamente nello spazio brunito dell’ombra come l’argento della luna ai vetri della finestra. L’immagine duplica se stessa come se avesse un segreto da svelare. Di chi? Di me o dell’immagine che credevo morta? Di profilo di fronte ci somigliamo, siamo l’ombra l’uno dell’altro, ma lui era nato per conquistare il mondo con una pietà priva di lacrime, non ha abbandonato mai nessuno ma sa svanire come svanisce la nuvola se non la guardo. E adesso torna a cercare nel mio passato con il suo sguardo che attraversa la nebbia tra i suoi occhi e l’orizzonte. Un vuoto una solitudine penetra il mio cuore mentre mi guardano un silenzio una traccia di un dolore represso. Immagine della mia immagine o verità che rifiuto di riconoscere?
Particolare da: Uomo che scrive una lettera (1660) Jacob Levecq
MEDITATION – Paul HINDEMITH Viola – Flora VAN LEEUWEN Piano – Marc VAN MOERKERCKE
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Lettera a …
Da anni ti attendo in silenzio. Tu vieni quando vorrai. So che verrai. Sei la terra su cui poggio i piedi il ramo da cui guardo il mondo. Ma il giorno in cui mi sarai accanto come una madre raramente amata con l’agonia del figlio tra le braccia non riuscirò a vederti. Ti sentirò soltanto. A bocca spalancata e muta ti dirò eccomi. Basta il movimento delle labbra. Le parole non servono. Sorda ad ogni voce umana o non umana sollecita soltanto ai sospiri dell’anima. I tuoi occhi volti all’indietro nel non luogo della notte mi riconoscono. Mi chiamerai per nome? Quando verrai sarà un giorno tranquillo simile a quello che mi ha visto nascere. Nelle luci soffuse il parlare sottovoce di uno sparuto coro accoglierà il tuo arrivo. Un sommesso lamento qualche lacrima lenta. Mi sarà data in dono come Orfeo a Euridice una rosa da custodire tra le mie mani sul petto. E tu in piedi davanti al mio corpo disteso sulla terra bianca delle lenzuola somiglierai al mio sogno di donna che mai mi ha stretto tra le sue braccia. Quando verrai il tuo sorriso sarà l’invito a rifugiarmi tra le tue. Sono fredde ma mi faranno fremere perché è da tempo che attendo di ricongiungermi al buio caldo e umido del tuo corpo. Vieni quando vorrai. Sarai la serenità che ho atteso per aprire le ali.
Maurice Ravel Rapsodie espagnole N°1 -Prélude à la Nuit- The Cleveland Orchestra / Vladimir Ashkenazy
Fotografia di L.M. Corsanico
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Sei tra le mie braccia, nuvola che fuggi nel tempo e nello spazio spinta via dal vento e fuggendo piangi l’essenza che si scioglie. Dall’alto vedi gli alberi contorcersi nello sforzo di staccare le radici e volare, l’erba selvatica bere allegramente le tue lacrime, la città fusa nel vetro come una pietra lucida dal cuore freddo e immobile che attende il tuo svanire. Uomini che imprecano a te e al vento all’ottuso scorrere del tempo altri che inneggiano e vorrebbero strapparsi dalla terra essere come te che fuggi. Ma senz’orma il vento ti dissipa e ti dimenticano gli uomini in cerca altrove di un avversario o di un conforto. Rimani tra le mie braccia come un sogno pensato come un’immagine della vita e dell’uomo paurosi e fragili, spinti dal vento inesorabile.
Richard Wagner Wesendonck Lieder, Träume Jill Valentine, viola Madeline Slettedahl, piano
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Sono pieno di ricordi come avessi mille anni.
Un mobile enorme con cassetti colmi di versi, bilanci, processi, romanze, dolci biglietti con spesse ciocche di capelli avvolte nelle quietanze, nasconde meno segreti del mio triste cervello. È una piramide, un immenso sepolcro nascosto che contiene più morti di una fossa comune. Io sono un cimitero che la luna rifugge, dove lunghi versi, strisciando come rimorsi, si accaniscono sempre sui miei morti più cari. Sono una vecchia stanza piena di rose appassite dove giacciono in gran disordine modelli superati, dove pastelli lacrimosi e pallidi Boucher aspirano il profumo vecchio di un flacone aperto. Nulla eguaglia in lunghezza queste giornate assurde quando sotto i fiocchi pesanti di nevose annate la noia, frutto della piatta apatia, assume le dimensioni di un essere immortale. — Ormai tu non sei, o materia vivente, che una roccia circondata da spaventose onde, una roccia assopita in fondo a un Sahara brumoso, una vecchia sfinge ignorata da un mondo senza pensieri, dimenticata dagli atlanti, e dall’umore scontroso che canta solamente ai raggi del tramonto.
Dmitri Shostakovich String Quartet No. 8 in C minor, Op. 110 1st movement (Largo) Borodin String Quartet
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DEUS 3.6.1913
Avolte sono il dio che porto in me E sono anche il dio, il credente e la preghiera E il simulacro d’avorio dove quel dio si smemora.
A volte sono solo un ateo di quel dio che io sono quando mi esalto. Vedo dentro me un intero cielo ed è il puro vuoto di un cielo alto.
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22.11.1928
La speranza come un fiammifero ancora acceso, L’ho lasciata cadere sul pavimento. Si è spenta sul pavimento illeso. Il fallimento sociale del mio destino L’ho riconosciuto, come un mendicante in prigione.
Ogni giorno mi trascina con qualcosa da sperare Qualcosa che nessun giorno potrà dare. Ogni giorno mi stanca con le sue speranze… Ma vivere è sperare e stancarsi.
La promessa non sarà mai mantenuta Perché nel promettere si è compiuto il destino. Quello che si spera, se la speranza è entusiasmo, È stato speso sperandolo, ed è già finito.
Quanta rivincita pensi contro il destino Nemmeno i versi possono esprimerla. E il dado Rotolato sotto il tavolo, la carta nascosta Neppure il giocatore stanco li cerca.
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28.12.1928
La pallida luce della mattina d’inverno, il molo e la ragione non danno speranza, nemmeno una sola speranza, al mio cuore. Quel che deve essere, sia che io lo desideri o meno.
Nel rumore del molo, nel turbinio del fiume nella strada che si risveglia niente più silenzio, nemmeno un nulla per il mio sperare. Quel che non deve essere altrove sarà, se lo pensassi; tutto il resto è sognare.
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19 novembre 1935 Ultimo componimento poetico scritto da Fernando Pessoa undici giorni prima della morte.
Ci sono malattie peggiori delle malattie, Ci sono dolori che non dolgono, nemmeno nell’anima, Ma sono più dolorosi degli altri. Ci sono angustie sognate più reali Di quelle che la vita ci porta, ci sono sensazioni Provate solo con l’immaginario Che sono più nostre della nostra vita. Ce ne sono così tante che, senza esistere, esistono, esistono lungamente, E lungamente sono nostre, siamo noi … Sopra il verde torbido dell’ampio fiume Gli archi bianchi dei gabbiani … Sopra l’anima il volteggiare inutile Di quel non era, né poteva essere, e questo è tutto.
Auguste Rodin “Le Penseur” sur “La Porte de l’enfer”, au musée Rodin.
J. S. Bach, Matthäus-Passion : “Erbarme dich, mein Gott” BWV 244 Trascrizione per organo di Benjamin Righetti
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Ho voglia di scrivere versi e pensieri rivoltare col vomero della penna la terra irta di cadaveri per amore o debolezza verso una patria inesistente oggi dimenticati anche dal sole calcinati ogni giorno. Una terra di ciechi storpi malati teste vuote e animi servili che accorrono sventolando bandiere e fazzoletti per acclamare in nome della pace chi semina odio e vendetta. Vorrei scrivere dei potenti che intendono mettere i loro piedi sui mondi mai esplorati in cerca della salvezza quando avranno sfruttato questa terra. Scrivere dei preti che sublimano i loro corpi tradendo la carità e la fede. Vorrei rivoltare le tombe dei poeti morti in solitudine per liberarne le parole mai ascoltate da nessuno trasformarle in torcia per appiccare il fuoco alle menti soffocate dal guadagno. Vorrei scrivere dei poveri avvolti nel silenzio come fumo sulla carne lessa distesa sui piatti gelidi delle mense imbandite di speranze vane. Vorrei scrivere degli amori morti poi risorti tra spine e lacrime che trafiggono il cuore senza pietà e trasformano le albe in tramonti.
Vorrei abbandonare il vomere alzare i pugni al cielo mostrargli un mondo creato per la morte.
Clitemnestra e Cassandra, un’assassina e una vittima, una moglie infedele e un’amante? Aver accostato questi due testi ha lo scopo di meglio sottolineare, senza alcuna finalità di confronto, il valore simbolico della vicenda di Clitemnestra e Cassandra, accumunate dallo stesso destino di essere donne legate alla medesima catena: il loro rapporto con l’eroe Agamennone, come moglie la prima, come amante la seconda. La vicenda è rappresentata all’interno di due distinti teatri di prosa. il primo testo narra l’uccisione di Agamennone per mano di Clitemnestra. il secondo narra l’uccisione di Cassandra per mano di quest’ultima. Clitemnestra compie il suo gesto di vendetta contro un uomo che è, nell’immaginario collettivo, un valoroso combattente. E Cassandra, mal sopportata ancora oggi per l’oscurità della sua veggenza catastrofica, non può che subire la stessa sorte in quanto amante, seppur schiava, dell’Eroe. L’accostamento, come detto non ha lo scopo di mettere a confronto il valore simbolico delle due donne, ma suggerisce ugualmente la domanda su chi delle due subisce la sorte più infelice: Cassandra che viene uccisa perché amante o Clitemnestra che porterà su di sé le conseguenze terribili della sua vendetta? Un vendetta che è resa ancor più drammatica dall’apparire di una terza figura che è vittima innocente e che unisce ancor di più la sorte delle due donne: Ifigenia figlia di Clitemnestra che verrà uccisa due volte: da Agamennone e poi, inconsapevolmente, dalla sua stessa madre. Perché la sorte del femminile è una sola: uccidere una donna, seppure per mano di un’altra donna, significa ucciderle tutte. Entrambi i testi si concludono con gli applausi di coloro che assistono allo svolgersi delle due tragedie. Ma gli applausi a chi sono rivolti ? Una domanda che ci fa riflettere se davvero l’uomo è capace di rifuggire il male.
Coloro che scrivono versi intrecciandoli di speranze come alberi sontuosi e sottane di luce e augurano a tutti una vita assolutamente nuova parlino pure a voce alta. Tu che sei arso dal lungo fuoco del disinganno che sei meno di quel che pensi e sei meno di te stesso parla a bassa voce. Ancora non sai cosa sia l’assenza, la paura, l’ansia. Parla a bassa voce. Un’acqua che brucia scende dagli occhi un’aria fetida nei polmoni ha invaso lunghe file di uomini poi svaniti lungo corsie desolate. Sai cos’è il dolore la disperazione il lutto? Parla a bassa voce. Il silenzio tesse trame di panico e d’angoscia. Affondano le unghie nel petto soffocano i battiti di coloro che sono separati per sempre condannati nelle prigioni fredde vaganti nell’infinito. Parla a bassa voce. Usa la poesia per consolare le lacrime di coloro che guardano le lunghe file dei morti. Scrivi pacatamente. Fai trasparire dai versi una stella a coloro che sono rinchiusi nella scatola delle quattro pareti con le mani e il cuore legati dalla disperazione e dal lutto.
Come una nuvola bianca nella serenità del cielo il foglio si dispiega sullo sfondo celeste. Le mie dita danzano sulla tastiera al ritmo lento delle parole tracciano sillabe e ombre della mia vita. Saltano a grandi passi da un tasto all’altro simili all’airone che spicca il volo verso un oriente lontano, mi staccano dall’opacità dello stagno. Affaticato dall’ansia di volare alto senza muovere un solo muscolo non c’è nulla di bianco e azzurro nel cielo dove m’innalzo. Lampi muti tra nuvole gonfie di tante voci raccolte in un canto e nel quadro che ricompone pian piano visi, bocche d’amore, labbra, corpi che s’intrecciano e tornano a vivere come cenere sparsa sulle parole già scritte, hanno la forza di squassarmi il petto con martellante memoria di scenari vissuti perduti e ritrovati. Le mie dita si tendono con delicata malinconia alla pagina macchiata da schiere di stelle in viaggio come le code di comete nere. Le cercano le inseguono. Tornano sui tasti immobili come aironi feriti.
Seduto da solo al tavolino del bar senza ambizioni né desideri triste e quieto penso alle sale d’attesa piene di sogni altrui e le ricopio in versi sul foglio del mio pensiero. Nelle lunghe giornate di sole seguo il vostro passarmi accanto come vigili mummie dai visi riarsi, le ragazze con le labbra assetate d’amore che ridono eternamente giovani e i bambini vocianti che mangiano un gelato alla fragola. Ma in fondo alla strada è il vento lieve come una farfalla che mi porta il profumo della natura e un interminabile tramonto nel susseguirsi delle stagioni. In compagnia del silenzio sento il lento scrosciare della pioggia sul selciato e nella notte sotto lo sguardo muto dei lampioni il sonno delle vetrine sbarrate dalle serrande mi ricorda come sono stati i miei anni. Nulla intorno mi distrae dal pensare alle speranze ingannatrici del mio passato ai sogni inutili di un futuro immaginato. Il vecchio Ribeiro che mi sta di fronte sul suo alto monumento di marmo si compiace delle sue trovate argute e si congeda con un sorriso ironico. Quando il sole brilla pesante nell’azzurro qualcuno sorridendo mi siede accanto finge di conversare con me e mi chiede come mai le mie parole ardono ancora tra incanto e cupa contemplazione. Con il braccio poggiato sul tavolino taccio come una cosa dimenticata che vede in sé stessa la disperazione del nulla. Prima di allontanarsi mi stringe la mano sospesa tra il cuore e la mente come un airone che porta via i sentimenti verso un cielo dove si mescolano illusioni e dolore. Non posso guardarvi negli occhi e se potessi vi guarderei senza vedervi. E se vi vedessi quanto lontano sarei dai vostri pensieri! Nel bronzo che m’imbalsama il corpo nell’immobile parvenza di vita il mio cuore paziente come il ragazzo che spesso ho rimpianto palpita ancora per vendicarsi d’averlo negato con la stessa passione con cui si nega Dio. Mi levo l’ampio cappello augurandovi buon sole e la pioggia se necessaria.