Fernando Pessoa – Ode al crepuscolo ÁLVARO DE CAMPOS Dois excertos de odes (fins de duas odes, naturalmente ) II
Lettura di Luigi Maria Corsanico
Fernando Pessoa, UNA SOLA MOLTITUDINE (volume primo) a cura di Antonio Tabucchi con la collabirazione di Maria José de Lancastre, Biblioteca Adelphi 86, 1979
Immagini: Oswaldo Goeldi (1895 – 1961) Pittore e incisore brasiliano.
J.S. Bach. Adagio da Toccata, Adagio & Fuga BWV 564 Daniil Shafran, Violoncello Anton Ginzburg, Pianoforte
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II
Ah, il crepuscolo, il cader della notte, l’accendersi delle luci nelle metropoli e la mano del mistero che soffoca il movimento, e in noi la stanchezza del tutto, che ci corrompe per una sensazione esatta e precisa e attiva della Vita! Ogni strada è un canale di una Venezia di tedio, e quanto mistero nel fondo unanime delle strade, delle strade all’ imbrunire, o Cesario Verde, mio Maestro, Cesario del Sentimento dum Ocidental! * Che fonda inquietudine, che desiderio di altre cose, cose che non sono paesi, momenti, vite, che desiderio forse di altri stati d’animo inumidisce l’interno di un istante tardo e remoto! Un orrore sonnambulo fra le luci che si accendono, un terrore tenero e liquido appoggiato agli angoli come un mendicante di sensazioni impossibili che nessuno, lo sa, potrà dargli… Quando io morirò, quando me ne andrò, ignobilmente, come tutti, per quella strada la cui idea non si può affrontare, per quella porta che potendo non varcheremmo mai, per quel porto che il capitano della Nave non conosce, che sia in quest’ora degna dell’angustia che ha accompagnato la mia vita, in quest’ora mistica e spirituale e antichissima, in quest’ora in cui forse, molto prima di quanto si creda, Platone vide in sogno l’idea di Dio che scolpiva corpo ed esistenza nitidamente plausibili nel suo pensiero esteriorizzato come un campo. Sia in quest’ora il mio funerale, in quest’ora in cui io non so come vivere, in cui non so quali sensazioni avere o fingere di avere, in quest’ora la cui misericordia è torturata ed eccessiva, la cui ombra giunge da qualcosa che non è le cose, il cui passaggio non strascica vesti sul terreno della Vita Sensibile e non lascia profumi nelle strade dello sguardo. Intreccia le mani sulle ginocchia, compagna che non ho né voglio avere. Intreccia le mani sulle ginocchia e guardami in silenzio in quest’ora in cui io non posso scorgere il tuo sguardo, guardami in silenzio e in segreto e chiedi a te stessa — tu che mi conosci — chi sono io…
(30.6.1914)
*José Joaquim Cesário Verde (Lisbona, 25 febbraio 1855 -19 luglio 1886) è stato un poeta portoghese. La sua opera più conosciuta: O Sentimento dum Ocidental, 1880.
Fernando Pessoa – Monologo nella Notte (Monólogo na Noite) FERNANDO PESSOA FAUST Edizione italiana con testo a fronte a cura di MariaJosé de Lancastre Trascrizione del manoscritto originale di Teresa Sobral Cunha GIULIO EINAUDI EDITORE
Lettura di Luigi Maria Corsanico
György Ligeti Lux Aeterna (1966) arranged by Shea Lolin
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FAUST ATTO TERZO * Monologo nella Notte
Sono la Coscienza in odio all’incosciente. Sono un simbolo incarnato in dolore e in odio, brandello d’anima di ipotetico Dio scaraventato nel mondo con la nostalgia pavida della patria al cui orrore tremo se penso di tornare ma senza nulla ( … ) dell’illusione per vivere in questo esilio. Amore, pace, amicizia, tutto quanto aiuta a vivere la menzogna dell’universo mi viene meno e io ( … ) Oh sistema simulato dell’universo stelle-nienti, soli irreali oh, con quale odio carnale e frastornante il mio essere di esiliato vi odia. Io sono l’inferno. Sono il Cristo negro inchiodato sulla croce ignea di me stesso. Sono la scienza che ignora; sono l’insania del dolore e del pensare sopra il libro dell’orrore del mondo. Poiché sono stato io, maledetto orrore che mi hai fatto essere e al quale non posso pensare per maledirti, o per credere in te; cosi pieno di coscienza e di misura da non essere accecato dall’odio, da capire che non so chi sei, da sapere se almeno potrò pensare di odiarti.
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Monólogo na Noite
Sou a Consciência em Ódio ao inconsciente. Sou um símbolo encarnado em dor e ódio Pedaço d’alma de possível Deus Arremessado para o mundo Com a saudade pávida da pátria A cujo horror tremo ao pensar voltar Mas sem nada (…) da ilusão Para viver neste desterro. Amor, Paz, amizade, tudo quanto ajuda A viver a mentira do universo Falha-me e eu (…)
Ó sistema mentido do universo Estrelas-nadas, sóis irreais Oh com que ódio carnal e estonteante Meu ser de desterrado vos odeia. Eu sou o inferno. Sou o Cristo negro Pregado na cruz ígnea de mim mesmo Sou o saber que ignora;
Sou a insânia da dor e do pensar Sobre o livro de horror do mundo.
Por que fui eu, amaldiçoado horror Que me fizeste ser e que eu nem posso Pensar para te amaldiçoar, ou crer Em ti, tão cheio do consciente e mensurante Que o ódio me não cegue para ver Que não sei que tu és para saber Se sequer poderei pensar odiar-te.
Fausto – Tragédia Subjectiva. Fernando Pessoa. (Texto estabelecido por Teresa Sobral Cunha. Prefácio de Eduardo Lourenço.) Lisboa: Presença, 1988. – 112.
(…) parole illeggibili/incerte nel manoscritto originale.
Fernando Pessoa – Ciò che mi fa male non è O que me dói não é 5.9.1933 Poesias de Fernando Pessoa Lisboa: Ática, 1942 (15ª ed. 1995). Traduzione di L.M.Corsanico
Lettura di Luigi Maria Corsanico
Erik Satie Gymnopedie No 1 for flute cello and piano Mate Palhegyi, flute Balazs Kantor, cello Szilvia Elek , piano
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Ciò che mi fa male non è Quel che c’è nel cuore Ma queste cose belle Che mai esisteranno… Sono le forme senza forma Che passano senza che il dolore Le possa capire O sognarle l’amore. Sono come se la tristezza Fosse un albero e, una ad una, Le sue foglie cadessero Tra le orme e la nebbia.
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O que me dói não é O que há no coração Mas essas coisas lindas Que nunca existirão… São as formas sem forma Que passam sem que a dor As possa conhecer Ou as sonhar o amor. São como se a tristeza Fosse árvore e, uma a uma, Caíssem suas folhas Entre o vestígio e a bruma.
Poesias. Fernando Pessoa. (Nota explicativa de João Gaspar Simões e Luiz de Montalvor.) Lisboa: Ática, 1942 (15ª ed. 1995). – 168.
FERNANDO PESSOA Frammento: Tu non esisti, lo so bene, ma so forse con certezza se io esisto? Tu não existes, eu bem sei, mas sei eu ao certo se existo?
Paul Hindemith Double Bass Sonata: III. Molto Adagio Niek de Groot, double bass Catherine Klipfel, piano
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Tu non esisti, lo so bene, ma so forse con certezza se io esisto? Io, che ti esisto in me, avrò forse più vita reale di te, della stessa vita che ti vive? Fiamma trasformata in aureola, presenza assente, silenzio ritmico e femmina, crepuscolo di vaga carne, coppa dimenticata per il festino, vetrata dipinta da un pittore-sogno in un Medioevo di un’altra Terra. Calice e ostia dalla casta raffinatezza, altare abbandonato di santa ancora viva, corolla di gigli sognati del giardino dove mai nessuno è penetrato… Sei l’unica forma che non causa tedio, perché sei sempre mutevole con il nostro sentimento, perché, così come baci la nostra allegria, culli il nostro dolore, e sei per il nostro tedio l’oppio che conforta e il sonno che riposa e la morte che incrocia e unisce le mani. Angelo…, di che materia è fatta la tua materia aerea? quale vita ti lega a quale terra, tu che sei volo mai spiccato, ascensione stagnante, gesto di elevazione e di riposo?
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Tu não existes, eu bem sei, mas sei eu ao certo se existo? Eu, que te existo em mim, terei mais vida real do que tu, do que a própria vida que te vive?
Chama tornada auréola, presença ausente, silêncio rítmico e fêmea, crepúsculo de vaga carne, taça esquecida para o festim, vitral pintado por um pintor-sonho numa idade média doutra Terra.
Cálice e hóstia de requinte casto, altar abandonado de santa ainda viva, corola de lírio sonhado do jardim onde nunca ninguém entrou…
És a única forma que não causa tédio porque és sempre mudável com o nosso sentimento, porque, como beijas a nossa alegria, embalas a nossa dor, e ao nosso tédio, és-lhe o ópio que conforta e o sono que descansa, e a morte que cruza e junta as mãos.
Anjo (…), de que matéria é feita a tua matéria alada? que vida te prende a que terra, a ti que és voo nunca erguido, ascensão estagnada, gesto de enlevo e de descanso?
Livro do Desassossego por Bernardo Soares. Vol.I. Fernando Pessoa. (Recolha e transcrição dos textos de Maria Aliete Galhoz e Teresa Sobral Cunha. Prefácio e Organização de Jacinto do Prado Coelho.) Lisboa: Ática, 1982. – 249.
Dmitri Shostakovich String Quartet No. 8 in C minor, Op. 110 1st movement (Largo) Borodin String Quartet
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DEUS 3.6.1913
Avolte sono il dio che porto in me E sono anche il dio, il credente e la preghiera E il simulacro d’avorio dove quel dio si smemora.
A volte sono solo un ateo di quel dio che io sono quando mi esalto. Vedo dentro me un intero cielo ed è il puro vuoto di un cielo alto.
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22.11.1928
La speranza come un fiammifero ancora acceso, L’ho lasciata cadere sul pavimento. Si è spenta sul pavimento illeso. Il fallimento sociale del mio destino L’ho riconosciuto, come un mendicante in prigione.
Ogni giorno mi trascina con qualcosa da sperare Qualcosa che nessun giorno potrà dare. Ogni giorno mi stanca con le sue speranze… Ma vivere è sperare e stancarsi.
La promessa non sarà mai mantenuta Perché nel promettere si è compiuto il destino. Quello che si spera, se la speranza è entusiasmo, È stato speso sperandolo, ed è già finito.
Quanta rivincita pensi contro il destino Nemmeno i versi possono esprimerla. E il dado Rotolato sotto il tavolo, la carta nascosta Neppure il giocatore stanco li cerca.
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28.12.1928
La pallida luce della mattina d’inverno, il molo e la ragione non danno speranza, nemmeno una sola speranza, al mio cuore. Quel che deve essere, sia che io lo desideri o meno.
Nel rumore del molo, nel turbinio del fiume nella strada che si risveglia niente più silenzio, nemmeno un nulla per il mio sperare. Quel che non deve essere altrove sarà, se lo pensassi; tutto il resto è sognare.
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19 novembre 1935 Ultimo componimento poetico scritto da Fernando Pessoa undici giorni prima della morte.
Ci sono malattie peggiori delle malattie, Ci sono dolori che non dolgono, nemmeno nell’anima, Ma sono più dolorosi degli altri. Ci sono angustie sognate più reali Di quelle che la vita ci porta, ci sono sensazioni Provate solo con l’immaginario Che sono più nostre della nostra vita. Ce ne sono così tante che, senza esistere, esistono, esistono lungamente, E lungamente sono nostre, siamo noi … Sopra il verde torbido dell’ampio fiume Gli archi bianchi dei gabbiani … Sopra l’anima il volteggiare inutile Di quel non era, né poteva essere, e questo è tutto.
Sono stato un altro per molto tempo (dalla nascita e dalla coscienza), e mi sveglio ora in mezzo al ponte, affacciato sul fiume, sapendo che esisto più stabilmente di colui che sono stato finora.
Frammento da: IL LIBRO DELL’INQUIETUDINE di Bernardo Soares (Titolo originale: O Livro do Desassossego por Bernardo Soares) Edizione di riferimento: Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares, prefazione di Antonio Tabucchi, traduzione di Maria Josè de Lancastre e Antonio Tabucchi, Universale Economica Feltrinelli, 2000
Lettura di Luigi Maria Corsanico
Max Richter, “On the Nature of daylight” Orchestre Gabriel Fauré du CRD d’Angoulême
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21.2.1930
All’improvviso, come se un destino chirurgo mi avesse operato per una cecità antica ottenendo un grande successo immediato, alzo la testa dalla mia vita anonima verso la chiara conoscenza del come esisto. E vedo che tutto quanto ho fatto, tutto quanto ho pensato, tutto quanto sono stato, è una specie di inganno e di follia. Mi stupisco di quello che non sono riuscito a vedere. Mi sorprendo di quanto sono stato accorgendomi che in fin dei conti non sono.
Guardo, come in una distesa al sole che rompe le nuvole, la mia vita passata; e mi accorgo, con uno stupore metafisico, di come tutti i miei gesti più sicuri, le mie idee più chiare e i miei propositi più logici non siano stati altro che un’ebbrezza congenita, una pazzia naturale, una grande ignoranza. Non ho neppure recitato. Sono stato recitato. Non sono stato l’attore, ma i suoi gesti.
Tutto quanto ho fatto, ho pensato e sono stato, è una somma di subordinazioni, sia a un ente falso che ho creduto mio perché ho agito partendo da lui, sia di un peso di circostanze che ho scambiato per l’aria che respiravo. In questo momento del vedere, sono un solitario immediato che si riconosce esiliato nel luogo in cui si è sempre creduto cittadino. Nel più intimo di ciò che ho pensato non sono stato io.
Mi sopravviene allora un terrore sarcastico della vita, uno sconforto che va oltre i limiti della mia individualità cosciente. So che sono stato errore e traviamento, che non ho mai vissuto, che sono esistito soltanto perché ho riempito tempo con coscienza e pensiero. E la mia sensazione di me è quella di chi si sveglia dopo un sonno pieno di sogni reali, o quella di chi è liberato, grazie a un terremoto, dalla poca luce del carcere a cui si era abituato.
Mi pesa, mi pesa veramente, come una condanna a conoscere, questa nozione improvvisa della mia vera individualità, di quella che ha sempre viaggiato in modo sonnolento fra ciò che sente e ciò che vede.
È così difficile descrivere ciò che si sente quando si sente che si esiste veramente, e che l’anima è un’entità reale, che non so quali sono le parole umane con cui si possa definirlo. Non so se ho la febbre, come sento, se ho smesso di avere la febbre di essere dormitore della vita. Sì, lo ripeto, sono come un viaggiatore che all’improvviso si trovi in una città estranea senza sapere come vi è arrivato; e mi vengono in mente i casi di coloro che perdono la memoria, e sono altri per molto tempo. Sono stato un altro per molto tempo (dalla nascita e dalla coscienza), e mi sveglio ora in mezzo al ponte, affacciato sul fiume, sapendo che esisto più stabilmente di colui che sono stato finora. Ma la città mi è sconosciuta, le strade nuove, e la malattia senza rimedio. Aspetto dunque affacciato al ponte, che passi la verità, e che io mi ristabilisca nullo e fittizio, intelligente e naturale.
È stato un attimo, ed è già passato. Vedo ormai i mobili che mi circondano, il disegno della vecchia carta alle pareti, il sole attraverso i vetri polverosi. Ho visto la verità per un attimo. Sono stato per un attimo, coscientemente, ciò che i grandi uomini sono verso la vita. Ricordo i loro atti e le loro parole, e non so se non sono stati anche loro tentati vittoriosamente dal Demone della Realtà. Non sapere di sé vuol dire vivere. Sapere poco di sé vuol dire pensare. Sapere di sé, all’improvviso, come in questo momento lustrale, vuol dire avere subitamente la nozione della monade intima, della parola magica dell’anima. Ma una luce improvvisa brucia tutto, consuma tutto. Ci lascia nudi perfino di noi stessi.
È stato solo un attimo e mi sono visto. Poi, non so più dire ciò che sono stato. E, alla fine, ho sonno, perché, non so perché, penso che il senso è dormire.
M’immagino Pessoa che scrive con la pipa tra le labbra nella sua confortevole stanza, e mentre scrive pensa che tutto ciò che gli sta intorno non esiste. Ma è lui che lo cancella e nel cancellarlo si fa il dono del vuoto, che gli permette di vedersi nudo e indifeso e spesso offeso dalla realtà da cui si sente aggredito. Non è la realtà che lo aggredisce ma quella condizione, spesso maledetta, che condanna tutti i poeti a vedere, con occhi esasperati dalla propria sensibilità, ogni cosa incastonata nella propria transitorietà, destinata a finire, e che nulla di ciò che li circonda è puro, di quella purezza che solo un animo sensibile desidera al di là di ogni possibile realtà. Quando poi l’idea di Dio e della sua eternità immutabile, diventano per il poeta la chiave che spalanca la porta del sognare e del piangere, allora l’uomo-poeta si accorge del proprio bisogno più intimo di sentirsi orfano per poter accrescere il sogno di essere amato. Ma anche per ipotizzare un universo talmente immenso da contenere indistintamente tutti i propri sogni e i propri incubi, e per l’eternità smarrirvisi. Questo prendere coscienza della propria contraddittorietà, crea una frattura – come la sente Pessoa – tra l’uomo che ogni giorno gioca con i suoi gingilli (tecnologici, hobbistici, idealistici, artistici o semplicemente affettivi – nell’ottica in cui li percepisce il poeta) e l’uomo che si accorge, anche solo per un attimo, del proprio trastullarsi, mentre è in realtà alla ricerca dell’amore e dell’essenza della vita. Ma questo amore e questa essenza si potranno mai raggiungere? Allora Dio, lui che avrebbe il potere di consolare permettendo il soddisfacimento dell’anelito umano, ha lo stesso potere del vento che, malinconicamente si dissolve come si dissolvono tutte le aspirazioni a cui tende l’uomo.
Fernando Pessoa – Dov’è Dio, anche se non esiste? Onde está Deus, mesmo que não exista?
Nancy Dalberg, String Quartet No. 1 in D Minor: III. Adagio Nordic String Quartet
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Dov’è Dio, anche se non esiste? Voglio pregare e piangere, pentirmi di crimini che non ho commesso, godere del perdono di una carezza non propriamente materna. Un grembo su cui piangere, ma un grembo enorme, informe, spazioso come una notte d’estate e al contempo vicino, caldo, femminile, accanto a un focolare qualsiasi… Potervi piangere cose impensabili, fallimenti che non so neanche quali sono, tenerezze di cose inesistenti e brividi per grandi dubbi su chissà quale futuro… Una nuova infanzia, ancora una vecchia nutrice e un piccolo letto dove alla fine addormentarsi, fra racconti che cullano, uditi appena, con l’attenzione che affievolisce, pericoli che si insinuavano fra giovani capelli biondi come il grano… E tutto ciò grandissimo, molto eterno, per sempre definitivo, della statura unica di Dio, là nella triste e sonnolenta realtà ultima delle Cose… Un grembo o una culla o un braccio caldo attorno al collo… Una voce che canta piano e sembra farmi piangere… Il crepitio della fiamma del focolare… Un caldo d’inverno… Un tiepido smarrimento della mia coscienza… E poi senza suono, un sogno calmo in uno spazio enorme, come la luna che ruota fra le stelle… Quando metto da parte i miei artifici e metto in ordine in un angolo, con un’attenzione piena di affetto – con la voglia di dare loro dei baci –, i miei giocattoli, le parole, le immagini, le frasi –, divento così piccolo e inoffensivo, così solo in una stanza così grande, e così triste, così profondamente triste!… Insomma, chi sono, quando non gioco? Un povero orfano abbandonato in Via delle Sensazioni, che batte i denti dal freddo all’angolo della Realtà, costretto a dormire sui gradini della Tristezza e a mangiare il pane offerto dalla Fantasia. Di mio padre so il nome; mi hanno detto che si chiamava Dio, ma il nome non mi dice niente. A volte, di notte, quando mi sento solo, lo chiamo e piango, e me ne faccio un’idea da poter amare… Ma poi penso che non lo conosco, che forse lui non è così, che forse non sarà mai quello il padre della mia anima… Quando avrà fine tutto ciò, queste strade dove trascino la mia miseria, e questi gradini dove contengo il freddo e sento le mani della notte penetrarmi fra gli stracci? Se un giorno Dio venisse a prendermi e mi portasse a casa sua e mi desse calore e affetto… A volte ci penso e piango per la gioia di pensare che posso pensarlo… Ma il vento soffia per le strade e le foglie cadono sul marciapiede… Alzo gli occhi e vedo le stelle che non hanno nessun senso… E di tutto ciò resto soltanto io, un povero bambino abbandonato che nessun Amore ha voluto come figlio adottivo, nessuna Amicizia come suo compagno di giochi. Ho troppo freddo. Sono così stanco nel mio abbandono. Va’ a prendere, o Vento, mia Madre. Portami di Notte alla casa che non ho mai conosciuto… Restituiscimi, o Silenzio immenso, la mia nutrice e la mia culla e la canzone che mi faceva addormentare…
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Onde está Deus, mesmo que não exista? Quero rezar e chorar, arrepender-me de crimes que não cometi, gozar ser perdoado como uma carícia não propriamente materna. Um regaço para chorar, mas um regaço enorme, sem forma, espaçoso como uma noite de Verão, e contudo próximo, quente, feminino, ao pé de uma lareira qualquer… Poder ali chorar coisas impensáveis, falências que nem sei quais são, ternuras de coisas inexistentes, e grandes dúvidas arrepiadas de não sei que futuro… Uma infância nova, uma ama velha outra vez, e um leito pequeno onde acabe por dormir, entre contos que embalam, mal ouvidos, com uma atenção que se torna morna, os perigos que penetravam em jovens cabelos louros como o trigo… E tudo isto muito grande, muito eterno, definitivo para sempre, da estatura única de Deus, lá no fundo triste e sonolento da realidade última das coisas… Um colo ou um berço ou um braço quente em torno ao meu pescoço… Uma voz que canta baixo e parece querer fazer-me chorar… O ruído de lume na lareira… Um calor no Inverno… Um extravio morno da minha consciência… E depois sem som, um sonho calmo num espaço enorme, como a lua rodando entre estrelas… Quando ponho de parte os meus artifícios e arrumo a um canto, com um cuidado cheio de carinho — com vontade de lhes dar beijos — os meus brinquedos, as palavras, as imagens, as frases — fico tão pequeno e inofensivo, tão só num quarto tão grande e tão triste, tão profundamente triste! … Afinal eu quem sou, quando não brinco? Um pobre órfão abandonado nas ruas das sensações, tiritando de frio às esquinas da Realidade, tendo que dormir nos degraus da Tristeza e comer o pão dado da Fantasia. De um pai sei o nome; disseram -me que se chamava Deus, mas o nome não me dá ideia de nada. Às vezes, na noite, quando me sinto só, chamo por ele e choro, e faço-me uma ideia dele a quem possa amar… Mas depois penso que o não conheço, que talvez ele não seja assim, que talvez não seja nunca esse o pai da minha alma… Quando acabará isto tudo, estas ruas onde arrasto a minha miséria, e estes degraus onde encolho o meu frio e sinto as mãos da noite por entre os meus farrapos? Se um dia Deus me viesse buscar e me levasse para sua casa e me desse calor e afeição… Às vezes penso isto e choro com alegria a pensar que o posso pensar… Mas o vento arrasta-se pela rua fora e as folhas caem no passeio… Ergo os olhos e vejo as estrelas que não têm sentido nenhum… E de tudo isto fico apenas eu, uma pobre criança abandonada, que nenhum Amor quis para seu filho adoptivo, nem nenhuma Amizade para seu companheiro de brinquedos. Tenho frio de mais. Estou tão cansado no meu abandono. Vai buscar, O Vento, a minha Mãe. Leva-me na Noite para a casa que não conheci… Torna a dar-me ó Silêncio imenso, a minha ama e o meu berço e a minha canção com que dormia…
Livro do Desassossego por Bernardo Soares. Vol.II. Fernando Pessoa. (Recolha e transcrição dos textos de Maria Aliete Galhoz e Teresa Sobral Cunha. Prefácio e Organização de Jacinto do Prado Coelho.) Lisboa: Ática, 1982. (289)
Fernando Pessoa – Il libro dell’inquietudine Frammento 235 (438) 29.11.1931 FELTRINELLI, Universale Economica Traduttori: Maria Josè de Lancastre, Antonio Tabucchi Lettura di Luigi Maria Corsanico
Paul Hindemith – Trauermusik for Viola and Strings (1936) Yuri Bashmet, viola Solistas de Moscou
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FERNANDO PESSOA LIVRO DO DESASSOSSEGO Título: Se alguma coisa ha que esta vida tem Heterónimo: Bernardo Soares Volume: II Número: 438 Página: 182 – 185 Data: 29-11-1931 Nota: [4-26, 27 e 28, dact.];
Fernando Pessoa – Nuvole Lisbona, 15.9.1931 da “Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares“ Traduzione di Antonio Tabucchi Universale Economica Feltrinelli
Lettura di Luigi Maria Corsanico del 20 dicembre 2015
Gymnopédie No. 1, Variation 1 (Arr. for Jazz Trio) – Jacques Loussier
Fotografie di L.M.Corsanico
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Nuvole… Oggi sono consapevole del cielo, poiché ci sono giorni in cui non lo guardo ma solo lo sento, vivendo nella città senza vivere nella natura in cui la città è inclusa. Nuvole… Sono loro oggi la principale realtà, e mi preoccupano come se il velarsi del cielo fosse uno dei grandi pericoli del mio destino. Nuvole… Corrono dall’imboccatura del fiume verso il Castello; da Occidente verso Oriente, in un tumultuare sparso e scarno, a volte bianche se vanno stracciate all’avanguardia di chissà che cosa; altre volte mezze nere, se lente, tardano ad essere spazzate via dal vento sibilante; infine nere di un bianco sporco se, quasi volessero restare, oscurano più col movimento che con l’ombra i falsi punti di fuga che le vie aprono fra le linee chiuse dei caseggiati. Nuvole… Esisto senza che io lo sappia e morirò senza che io lo voglia. Sono l’intervallo fra ciò che sono e ciò che non sono, fra quanto sogno di essere e quanto la vita mi ha fatto essere, la media astratta e carnale fra cose che non sono niente più il niente di me stesso. Nuvole… Che inquietudine se sento, che disagio se penso, che inutilità se voglio! Nuvole… Continuano a passare,alcune così enormi ( poiché le case non lasciano misurare la loro esatta dimensione ) che paiono occupare il cielo intero; altre di incerte dimensioni, come se fossero due che si sono accoppiate o una sola che si sta rompendo in due, a casaccio, nell’aria alta contro il cielo stanco; altre ancora piccole, simili a giocattoli di forme poderose, palle irregolari di un gioco assurdo, da parte, in un grande isolamento fredde. Nuvole… Mi interrogo e mi disconosco. Non ho mai fatto niente di utile né faro niente di giustificabile. Quella parte della mia vita che non ho dissipato a interpretare confusamente nessuna cosa, l’ho spesa a dedicare versi prosastici alle intrasmissibili sensazioni con le quali rendo mio l’universo sconosciuto. Sono stanco di me oggettivamente e soggettivamente. Sono stanco di tutto e del tutto di tutto. Nuvole… Esse sono tutto,crolli dell’altezza, uniche cose oggi reali fra la nulla terra e il cielo inesistente; brandelli indescrivibili del tedio che loro attribuisco: nebbia condensata in minacce incolori; fiocchi di cotone sporco di un ospedale senza pareti. Nuvole… Sono come me un passaggio figurato tra cielo e terra, in balìa di un impulso invisibile, temporalesche o silenziose, che rallegrano per la bianchezza o rattristano per l’oscurità, finzioni dell’intervallo e del discammino, lontane dal rumore della terra, lontane dal silenzio del cielo. Nuvole… Continuano a passare, continuano ancora a passare, passeranno sempre continuamente, in una sfilza discontinua di matasse opache, come il prolungamento diffuso di un falso cielo disfatto.